1993 o 1994. Gli anni in cui si era giovani, ma giovani davvero, come lo si può essere solo a 20 anni.
Quell'anno era timidamente apparso, in una grigia bacheca in un corridoio poco illuminato del Dipartimento di Scienze dell'Antichità (o come lo si chiamava, semplicemente "antichistica") un foglio -data l'epoca rigorosamente dattiloscritto - che, in mezzo ad avvisi di esami, programmi, ricevimenti e convegni, annunciava una riunione organizzativa per uno scavo archeologico. E svelava l'esistenza di un Laboratorio di Archeologia. Ovviamente ci andai, e tutto cambiò repentinamente.
Fu il mio primo scavo. Dove fosse non conta. Andata e ritorno in giornata. Due settimane passate a spolverare il (presunto) piano pavimentale di un (a molti ma non a me) evidente insediamento abitativo palesemente (sempre a molti ma non a me) preromano.
Intorno erano le colline dell'entroterra, il paesaggio deserto, i muretti a secco, a tratti l'erba verde dei pascoli. E in mezzo un piccolo cantiere. Disperso nel nulla, un piccolo scavo quadrato di pochi metri di lato, fieramente recintato con un nastro bianco e rosso. Non ho molti ricordi di quel breve e piccolo scavo, ma una cosa non la dimenticherò mai: i colori. Quei colori che se fai l'archeologo ti accompagneranno nella vita: il marrone scuro della terra, il grigio impalpabile della polvere, il bianco lucido delle pietre, il rosa ruvido dei laterizi e della ceramica. E i colori degli strumenti. Fai presto ad imparare che i treppiedi (e a volte gli strumenti ottici) saranno sempre gialli, i secchi quasi sempre neri (più raramente rossi), le carriole verdi (con un raffinatissimo gioco cromatico con i cerchioni e i manici, elegantemente colorati, ma sempre, rigorosamente, di nero, giallo o rosso).
Cambiò tutto l'anno successivo (ma non i colori!): nuovo scavo, nuovi luoghi, nuovi paesaggi. Enorme cantiere didattico internazionale, un centinaio di studenti, un affascinante mix fra un raduno paramilitare, un campo scout e una gita scolastica lunga 2 mesi.
Fu il mio primo scavo. Dove fosse non conta. Andata e ritorno in giornata. Due settimane passate a spolverare il (presunto) piano pavimentale di un (a molti ma non a me) evidente insediamento abitativo palesemente (sempre a molti ma non a me) preromano.
Intorno erano le colline dell'entroterra, il paesaggio deserto, i muretti a secco, a tratti l'erba verde dei pascoli. E in mezzo un piccolo cantiere. Disperso nel nulla, un piccolo scavo quadrato di pochi metri di lato, fieramente recintato con un nastro bianco e rosso. Non ho molti ricordi di quel breve e piccolo scavo, ma una cosa non la dimenticherò mai: i colori. Quei colori che se fai l'archeologo ti accompagneranno nella vita: il marrone scuro della terra, il grigio impalpabile della polvere, il bianco lucido delle pietre, il rosa ruvido dei laterizi e della ceramica. E i colori degli strumenti. Fai presto ad imparare che i treppiedi (e a volte gli strumenti ottici) saranno sempre gialli, i secchi quasi sempre neri (più raramente rossi), le carriole verdi (con un raffinatissimo gioco cromatico con i cerchioni e i manici, elegantemente colorati, ma sempre, rigorosamente, di nero, giallo o rosso).
Cambiò tutto l'anno successivo (ma non i colori!): nuovo scavo, nuovi luoghi, nuovi paesaggi. Enorme cantiere didattico internazionale, un centinaio di studenti, un affascinante mix fra un raduno paramilitare, un campo scout e una gita scolastica lunga 2 mesi.
Fu allora che l'archeologia, improvvisamente ed inaspettatamente divenne passione, luogo eletto dello stare insieme, del condividere, del crescere. Iniziare una vita diversa, affacciarsi a lavori e compiti nuovi era affascinante e travolgente per chi come me l'amore per l'antichità ce l'aveva da sempre, ma non riusciva a circoscriverlo nei margini dello studio delle lingue classiche, della filologia e della storia antica. Si cercava nella terra un legame più denso e vero con il passato, lavorando fianco a fianco con quelli che sarebbero diventati gli amici di una vita: insieme abbiamo provato in prima persona il fascino della fatica condivisa, la gioia della scoperta, il piacere della stanchezza, la rabbia per gli scempi. Nel pieno della passione avremmo voluto scavare tutto. Conoscere tutto, documentare tutto e ricostruire tutto.
Perché a vent' anni è tutto ancora intero, perchè a vent' anni è tutto chi lo sa,
a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell' età.
Del mio primo scavo ricordo la sensazione di non aver ben chiaro cosa stavo facendo. Non avevo ancora seguito Metodologia della Ricerca Archeologica, non avevo idea di cosa fosse un'US né mi fu spiegato troppo bene cosa fosse. Ma ricordo l'atmosfera, ricordo una per una le persone che scavavano con me, persino alcuni tormentoni da scavo, quelle stupidaggini, canzoncine o battute, che si sparano quando sei piegato da ore sotto il sole cocente. Ricordo soprattutto che erano in pochi coloro che credevano che mi sarebbe piaciuta un'esperienza del genere.
RispondiEliminaLi ho sconfessati l'anno dopo, e l'anno dopo ancora, e negli anni a venire, e anche se ora la mia vita professionale ha preso un'altra via rispetto al cantiere di scavo e alla ricerca sul campo, tuttavia so che è stata una parte fondamentale della mia formazione.
Già in quei casi (deformazione professionale) mi rendevo conto di quanto fosse importante la comunicazione con la gente del posto, per spiegare il perché e il per come, di quali fossero i limiti, e di quanto fosse importante, ma (almeno sui cantieri urbani) continuamente disatteso, stabilire un rapporto con la gente.