Ogni anno, prima dell'avvio dei corsi, mi rimbalza nel cervello una domanda, decisamente vicina alla mia professione di ricercatore e formatore.
La domanda è questa: che legame esiste fra l'archeologia che si insegna nelle Università ed il mestiere che attende i neolaureati (ammesso e non concesso che riescano a fare un lavoro che sia esito della loro formazione)?
L'archeologia nelle università appare ricca, interessante, poliedrica e i piani di studio, nonostante i progressivi ridimensionamenti imposti negli ultimi anni, continuano ad offrire mille insegnamenti che riflettono la complessità di una disciplina moderna. I miei pensieri vanno allora rapidamente a quando ero studente, e un'università così me la potevo soltanto sognare; chi voleva fare l'archeologo doveva fare da sé, districarsi in corsi di laurea orientati a tutt'altro e costruirsi funambolicamente la propria formazione.
Il problema inizia quando dalle università si esce e le cose non appaiono più così diverse da come erano 20 anni fa. Da questa prospettiva infatti non si può certo dire che l'archeologia sia cambiata di molto, né che oggi si lavori più o meglio di un paio di decenni fa. Da questa prospettiva l'archeologia odierna infatti mostra tutto il suo disinteresse verso la spendibilità delle conoscenze erogate e delle competenze create e appare molto meno evoluta di quanto voglia sembrare.
E allora, ecco che la domanda che mi rimbalza nel cervello si trasforma in un grappolo di domande ... che vi riporto, in ordine rigorosamente sparso:
- Perché nei corsi di laurea esiste solo un asfittico insegnamento di legislazione per i bbcc? Si fa appena in tempo ad imparare i principi legislativi generali, ma raramente si impara qualcosa dei propri diritti, e dei propri doveri, come archeologi professionisti. Non si parla di legislazione del lavoro, non si parla di sicurezza, non si impara ad interagire con il mondo della tutela.
- Perché progettazione, management e fund raising (per i beni culturali) sono tipici argomenti di master e non vengono invece ritenuti fondamentali per creare archeologi competenti, in grado di pensare ad un futuro che non sia né ricerca né archeologia preventiva? E perché in Italia si contano sulle dita di una mano gli insegnamenti di economia dei bbcc?
- Perché si lascia che siano corsi esterni a proporre i temi della comunicazione e della divulgazione (vedi la grande illusione)? Non sono forse questi temi una componente fondamentale del mestiere e del ruolo sociale dell'archeologo? Perché si lascia che divengano invece appannaggio di generici comunicatori o dell'industria della fiction senza alcun controllo di qualità?
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Bisognerebbe invertire la logica della formazione in archeologia, pensare per prima cosa allo sbocco professionale che si intende offrire, e costruire di conseguenza una didattica adeguata. Profondamente adeguata, e non soltanto articolata nella denominazione degli insegnamenti ...
... continua ...
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* Continuate voi questa lista con i vostri interrogativi ...
Sono d'accordo con te, Giuliano, e le tue macro-domande comprendono e racchiudono tante altre micro-domande (perché più puntuali e non perché meno importanti). Ad esempio perché ho dovuto studiare in maniera sterile un codice dei beni culturali, perché ho dovuto pagare un master per studiare comunicazione e nuovi media e numerosi altri perché.
RispondiEliminaNon so rispondere alla maggior parte degli interrogativi, ma ne ho (e penso che ce l'abbiamo tutti) una vaga idea. Non so perché l'archeologia 'insegnata' si è completamente scollata dall'archeologia 'praticata'.
Per un vezzo elitario? Per mascherare un mercato del lavoro difficile?
La cosa peggiore che una disciplina può fare è prendere una strada parallela alla realtà, isolarsi da essa e diventare una cosa che esiste solo tra le mura di un'università.
"Bisognerebbe invertire la logica della formazione in archeologia", come dici tu... Certo, bisognerebbe. Ma perché non si fa? Perché si continua a perseverare in un modello e con un modello didattico inutile e dannoso?
Mi viene da pensare che i senati accademici auspichino "cambiamenti di rotta" solo a parole e non nei fatti.
Invece di pormi degli interrogativi risponderò con un'esperienza di vita vissuta che secondo me vale più di mille parole. Quest'anno al mio corso di Dottorato un dottorando ha proposto, promosso e curato una serie di incontri sul tema della Valorizzazione dei Beni Culturali, da vari punti di vista, cercando sempre, però, di andare a sciogliere dei nodi o a suscitare un dibattito che non fosse solo sul sesso degli angeli, ma che parlasse di cose pratiche e che ponesse proposte concrete. Ebbene, i seminari sono stati realizzati, ma nell'indifferenza più totale (tranne per pochissimi illuminati esempi) quando addirittura nell'aperta ostilità dei docenti del Collegio di Dottorato. Motivo? Perché noi dottorandi dobbiamo condurre elevati studi accademici e non ci riguarda, mentre siamo immersi nelle nostre ricerche e nelle nostre sudate carte, il mondo, sporco e basso, dei problemi pratici che riguardano i Beni Culturali. Che detta in soldoni significa che se il mio progetto di dottorato riguarda tutte le problematiche possibili e immaginabili di un sito archeologico, devo occuparmi di sviscerarle nel miglior modo possibile, ma francamente che il sito sia fruibile al pubblico, musealizzabile, valorizzato, o al contrario nel degrado più totale e in rovina, non mi deve interessare.
RispondiEliminaDevo dire, per dovere di cronaca, che questa chiusura mentale da parte degli Accademici nei confronti dell'aspetto pratico che un tema come la valorizzazione comporta, è venuta non dagli archeologi ma dagli storici dell'arte. Ma la cosa, francamente, non mi consola. E il fatto che tra i dottorandi siamo stati in pochissimi a seguire i seminari è stato a parer mio decisamente sconfortante. Ma è molto indicativo di come ancora troppi ragionano all'interno delle Università italiane.