E' davvero così difficile immaginare per l'archeologia di domani uno scenario diverso da quello attuale, in cui si superi la diffusa ostilità fra i protagonisti e si inauguri invece una stagione di sinergia e collaborazione?
Una delle cose che continua a lasciarmi più incredulo nel mio lavoro è infatti l'incapacità che tutti dimostriamo di immaginarci come elementi di un insieme unitario e simbiotico. Ricerca, tutela e valorizzazione, che dovrebbero essere anelli di una catena del valore, ovvero un flusso naturale e logico di processi finalizzati allo sviluppo di un organismo nella sua intera complessità, assomigliano invece a delle monadi, autoreferenziali e isolate; mondi separati, ognuno con i suoi rituali e le sue prerogative, sospettoso nei confronti del vicino, e convinto della centralità della propria missione, civile e culturale.
Eppure, come qualunque altro sistema, anche l'archeologia potrebbe essere sottoposta ad una ristrutturazione dei rapporti fra gli attori con l'obiettivo di rinnovarsi e modernizzarsi, e non solo per migliorare i metodi di indagine, le aspettative di conoscenza, le possibilità in termini di tutela e valorizzazione, ma in vista di qualcosa di più ampio, lungimirante e, perché no, visionario.
Eppure, come qualunque altro sistema, anche l'archeologia potrebbe essere sottoposta ad una ristrutturazione dei rapporti fra gli attori con l'obiettivo di rinnovarsi e modernizzarsi, e non solo per migliorare i metodi di indagine, le aspettative di conoscenza, le possibilità in termini di tutela e valorizzazione, ma in vista di qualcosa di più ampio, lungimirante e, perché no, visionario.
Peccato che il rinnovamento e la modernizzazione siano argomenti tabù nei dipartimenti umanistici delle nostre università, che evidentemente non li ritengono strategici né per la formazione né per la ricerca. Inutile d'altronde notare che a questi stessi argomenti il mondo della tutela è assolutamente impermeabile, perso nell'impossibile gestione di una macchina obsoleta ed in eterno affanno.
Sono invece le istanze fatte proprie dai tanti professionisti, 'invisibili' agli occhi di questo distratto paese, che giustamente manifestano pubblicamente la loro presenza e si propongono come protagonisti per un futuro in cui l'archeologia sia qualcosa in più della giustapposizione di ricerca, tutela e valorizzazione. Sono infatti gli studenti di oggi (ovvero i professionisti di domani) a pretendere una formazione più moderna, in cui le tecnologie, la comunicazione, la creatività, la valorizzazione non siano più aspetti marginali dei propri percorsi di apprendimento, tristi appendici periferiche inserite nei piani di studio per qualche incomprensibile capriccio di un funzionario ministeriale.
Non è però più sufficiente inneggiare al rinnovamento della formazione e alla sacrosanta battaglia per il riconoscimento di una figura professionale (è una vergogna che se ne debba ancora parlare!), ma è invece fondamentale proporre ai centri di potere il problema -che prima che legislativo è culturale- della mancanza di una visione, per l'archeologia come forse per tutte le Humanities.
Ecco quello di cui davvero sento la mancanza: una visione, questa sì da considerare globale, di un ruolo possibile per l'archeologia nella società del domani, che sappia formare professionisti per i quali esista un mercato del lavoro, e sappia su questo impostare una crescita, sostenibile ed equa perché fondata più che sullo sfruttamento di beni e patrimoni, sulla collaborazione di tutti gli attori e sulla legittimazione di tutte le capacità esistenti.
Altrimenti ai giovani archeologi rimarrà solo la possibilità di protestare per ottenere la riconoscibilità di un lavoro usurante, per il quale saranno sempre e comunque iperqualificati e di essere risucchiati in una spirale di precariato destinata al fallimento personale e alla mortificazione professionale. Ai ricercatori rimarrà, oltre allo studio della complessità del passato e all'accumulo della conoscenza, la sensazione di aver perso contatto con il mondo contemporaneo. E per la società l'archeologia rimarrà un vezzo accademico, un rito massonico riservato a pochi eletti o una lontana ispirazione per fiction sempre uguali. Un hobby più che una professione, perché senza un fine preciso.
Insomma un gioco strano, nel quale l'unica mossa vincente è non giocare.
Insomma un gioco strano, nel quale l'unica mossa vincente è non giocare.
Nessun commento:
Posta un commento