Oggi si è svolto a Roma un convegno su “L’Italia dei beni culturali: formazione
senza lavoro, lavoro senza formazione”.
Nel corso della
giornata ho ascoltato tanti interventi, sul tema formazione e lavoro, che hanno
messo in evidenza i problemi di un mondo che vive in perenne agonia, fra
carenze ataviche e una strutturale mancanza di prospettive.
Che vi fosse uno
scollamento, vuoi generazionale, vuoi di ruolo, fra gli attori di questo
scenario mi sembra cosa ovvia, ma che abbia raggiunto una dimensione sistemica (leggibile ad esempio nella scarsa partecipazione all’evento) è a dir poco preoccupante.
Prendo spunto
dall’ultimo intervento che ho potuto ascoltare nel pomeriggio, prima di
prendere un treno che mi riportasse a casa; a parlare erano i rappresentanti
dell’associazione nazionale archeologi, che dopo aver esposto l’ennesima,
impietosa analisi dei dati di settore, hanno in poche parole riassunto il senso
della giornata; meglio di tanti interventi che avevano in precedenza descritto lo
sfascio del rapporto formazione-lavoro nel loro settore (bibliotecari, archeologi,
antropologi, restauratori, archivisti, storici dell’arte, architetti), e meglio
della lettura di tante testimonianze strazianti che narravano esperienze di
frustrazione di lunghi percorsi di specializzazione finiti nel nulla.
In questo intervento si
è parlato di colpe, responsabilità e bugie, equamente distribuite fra i diversi
attori dello scenario, nonché fra passato e presente.
Delle università, che
hanno per anni (e continuano a farlo) sventolato il miraggio di un reclutamento
illimitato nel personale interno e in quello del MiBAC;
Di chi ci ha creduto,
facendosi abbindolare da piani di studio evidentemente fatti male, con scarsa
capacità e forse, a volte, scarsa onestà intellettuale;
Di chi, ostinatamente
e acriticamente, continua a crederci ancora oggi.
Si è trattato senza
dubbio di un’analisi limpida e inesorabile, ma anche sobria e senza fronzoli, di quello
che si potrebbe definire un modello di sviluppo insostenibile (sempre che
esista un modello di sviluppo in questo settore).
Altrettanto limpide
sono le soluzioni individuate: avviare il riconoscimento del titolo
professionale, lavorare ad un sistema di welfare più orientato alla tutela
della persona che a quella del posto, consolidare (e mi permetterei di suggerire,
semplificare) l’affollato panorama dell’associazionismo.
Ottimo. Ma forse non
basta.
Da archeologo, da
ricercatore, da ‘privilegiato’, cerco ogni giorno di dare un senso, civile, al
mio mestiere, e per questo motivo mi permetto di lanciare un paio di spunti, che
suoneranno forse provocatori, ma che vogliono essere in realtà uno stimolo non tanto
a proseguire il dibattito su una nuova archeologia, ma piuttosto a cercare una
via d’uscita da una situazione inequivocabilmente paralizzata.
1- Gli archeologi son tutti giovani e belli.
Che università, ministero
e altri siano colpevoli di proporre un finto modello occupazionale è ormai
chiaro a tutti. Ma una volta che abbiamo smascherato l’inganno che cosa
proponiamo per il domani?
E’ indubbio che l’archeologia
preventiva, per quanto a singhiozzo, dia lavoro a molti giovani. Ma lavorare sul campo è davvero la prospettiva occupazionale su cui
vale la pena investire tutte le proprie competenze? Davvero è possibile
immaginare una vita di lavoro spesa spostandosi su cantieri diversi, in luoghi
diversi, fino all’età della pensione?
E in questo caso è davvero necessario l’accanimento formativo di un precorso di studi che dura più di
quello di un chirurgo?
Credo che gli
archeologi possano chiedere molto di più alle università, e debbano essere
messi nelle condizioni di farlo, attraverso interventi legislativi e di
governo, ma anche modificando profondamente il sistema della formazione.
Che deve portare gli
studenti a diventare professionisti, piuttosto che spingerli in una spirale
micidiale di iperspecialismi su temi certamente interessanti, ma orientati più
alla ricerca che alla creazione di competenze spendibili nel mercato del
lavoro. E’ quello che succede a tanti studenti, bravi, che proprio per la loro bravura
vengono condannati a proseguire su una strada senza uscita da cui sarebbe più
onesto invece metterli in guardia il prima possibile. Forse serve più
metodologia e meno cronologia.
2- L’immaginazione è più importante della
conoscenza.
Lo diceva Einstein,
immaginare è un’operazione complessa; per gli archeologi è pane quotidiano. “Come era?” è la domanda che ci si fa costantemente
nel nostro lavoro, e racchiude l’essenza del mestiere di archeologo. Senza immaginazione infatti non
si diventa bravi in un lavoro sempre in bilico fra tracce ed ricostruzione.
Eppure l’intero
settore della fruizione dei beni culturali demanda ad altri professionisti,
dotati di altra immaginazione, il compito di raccontare le proprie storie.
Tutte le volte che una brava guida gesticola davanti a un sito per descrivere
forme che non ci sono più e volumi ormai scomparsi sta raccontando una storia
ai suoi ascoltatori, una storia che potrebbe avere un valore enorme nel mercato
della fruizione. Nella produzione dei contenuti digitali ad esempio, che sono invece orientati
quasi costantemente ad una spettacolarizzazione acritica e fine a se stessa.
Quello della
comunicazione, della fruizione e delle tecnologie che la permettono è infatti un
mondo completamente trascurato nella formazione universitaria che invece dovrebbe
aggiornarsi, nei piani di studio, nell’offerta formativa, nei collegamenti con
il mondo imprenditoriale, e guardare con maggiore fiducia a queste nuove
professionalità, spingendosi oltre il mero perseguimento delle indagini
scientifiche.
Il settore della
comunicazione aspetta talenti! Iniziamo a costruire un ruolo per i tanti,
giovani e non, che hanno tanto da dire dei loro cocci, dei loro strati, dei
loro metodi.
Nessun commento:
Posta un commento